di Gianni di Quattro

Anche in Olivetti, l’azienda orgogliosamente amata, poteva accadere un episodio brutto della propria vita, perché la vita è ovunque, perché gli uomini sono gli stessi ovunque, spesso con il proprio egoismo, con la loro voglia di vincere anche quando la vittoria può essere un disastro per tanti. Il cinismo lo si può incontrare spesso anche in posti e uomini belli, infatti. Voglio ricordare un importante episodio che ha toccato molto la mia vita quando ero in Olivetti. Un ricordo che ancora mi addolora, ma che è stato importante e che mi pare naturale condividere volentieri con gli amici. Dopo tanti anni, poi.

Faccio prima una premessa e cioè che Nicola Colangelo, grande dirigente e capo della organizzazione italiana Olivetti per alcuni anni, era per me un grande amico, un fratello e da quando ci siamo conosciuti, in una bella Sardegna dei primi anni sessanta, abbiamo praticato la nostra amicizia sempre e in ogni occasione, sino alla sua scomparsa dolorosa. Una amicizia fatta di affetto, di condivisione culturale, di stima reciproca, di orgoglio per essere quelli che eravamo e con il piacere in più di amare molto la vita.

Dunque, io ero responsabile in Italia della divisione grandi clienti da qualche anno e, se ricordo bene, con risultati positivi in un mercato competitivo spesso affrontato con fantasia e molto impegno personale con un lavoro però molto bello e affascinante e, soprattutto, con amici di grande valore umano oltre che professionale.

Erano gli anni in cui Ivrea, i suoi manager della ricerca e sviluppo con il supporto dell’alto management e di altri settori aziendali, avevano pensato una nuova linea di minicomputer, non credendo alla loro scomparsa a favore del PC come dimostravano anche alcune difficoltà  di aziende leader del settore, della Digital per esempio, (poi tutte confermate), e di corredarli di un software di base proprietario (dal sistema operativo al monitor) in modo da legare per esempio (così tra l’altro dicevano) ogni cliente conquistato. Anche in questo caso ignorando, secondo il mio punto di vista, quello che stava accadendo sul mercato e come la stessa IBM, che questa politica aveva praticato per anni con i suoi grandi computer e i suoi mini, la stava abbandonando.

Io, credendo di fare bene per tutti, per l’azienda e soprattutto per fare sempre quello in cui credo, cercavo di polemizzare, di dimostrare che un tale investimento (il più grande per dimensioni mai fatto dalla Olivetti) sarebbe stato un grande problema e non avrebbe avuto tutto il ritorno che molti uffici e dirigenti di Ivrea ipotizzavano. I conti finali di questa operazione credo di non sbagliare se dico che confortano le mie preoccupazioni di quei tempi. Se ne è parlato poco, ma quando si cerca di capire la fine della azienda non dovrebbero essere trascurati simili particolari.

Per farla breve, per evitare che io inventassi soluzioni alternative gradite al mercato come stavo facendo per esempio con la BNL (lo avevano saputo) e che avrebbero potuto dimostrare l’errore strategico di Ivrea, l’azienda decise di cacciarmi (qualcuno chiese e ottenne la mia testa, penso che così si svolgono e si dicono queste cose). Decisero insomma di sollevarmi dall’incarico e sostituirmi con un caro amico e cioè con Enzo Mancuso (la nostra amicizia è ancora molto viva oggi) e di farlo con una certa violenza, cioè dalla sera alla mattina come si usa dire in questi casi. Una cosa un po’ non proprio in stile Olivetti se vogliamo, perlomeno della mia Olivetti.

Diedero incarico a Nicola Colangelo, che era formalmente il mio capo, di comunicarmelo e di procedere rapidamente. Ed ecco l’episodio, ecco il ricordo.

Nicola una mattina mi chiama, mi dice che dobbiamo parlare, usciamo per passeggiare girando attorno a Via Meravigli lentamente come se passeggiassimo nella piazza principale di uno dei nostri paesi del Sud. Parliamo a voce bassa anche se eravamo per strada, Nicola parla velocemente come se volesse disfarsi al più presto per non pensarci più di quello che aveva da dirmi e che non vorrebbe dirmi, mi racconta con la sua semplicità la situazione, la sua urgenza e irrevocabilità. Senza alcuna retorica, senza avventurarsi in ipotesi, senza commenti praticamente, una passeggiata fatta di grandi silenzi da ambo le parti. Perché io non volevo e non potevo discutere con Nicola, lo sapevamo, lo sapevano.

Ricorderò sempre il nostro imbarazzo reciproco, il mio dolore forse di più  per quello che stavano facendo fare a Nicola che per quello che stavano facendo a me stesso, a come mi stavano cacciando dall’azienda nella quale avevo vissuto con tanto orgoglio.

L’aspetto umano di questo episodio è stato tremendo, indimenticabile e molto volgare (diciamocelo), non me lo sarei aspettato dalla mia Olivetti. Non avrei mai pensato di lasciare l’azienda in questo modo. Io e Nicola non siamo mai più stati capaci di parlarne, di commentare, di confessarci il nostro dolore malgrado la nostra amicizia, la nostra familiarità e la nostra estrema confidenza non siano mai venuti meno sino alla sua fine.

Gli anni sono passati, la Olivetti è per me nella storia della mia vita e ne sono felice, gli amici sono rimasti e ne sono fiero, quelli che hanno voluto cacciarmi forse si sono alla fine resi conto che hanno perso, che ha perso l’azienda, che la loro arroganza e i loro errori forse hanno influito anche sulla fine della azienda. E se non lo hanno fatto meglio per loro, vivono sereni, più felici e senza dubbi sul loro passato. Io ogni tanto ripenso all’episodio, tremo proprio un momento e poi mi aggrappo alla bellezza che la Olivetti mi ha mostrato e alle opportunità che mi ha dato.

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