Ritorno ai Progetti a Ivrea – 1978 / 1984

Nel 1978, in connessione con un’ennesima crisi economica aziendale, cominciarono nuovi rivolgimenti, che culminarono con l’arrivo di Carlo De Benedetti nella posizione di comando. Io ero arcistufo di un intero decennio trascorso al Planning ed approfittai del cambiamento di incarico conseguente di Marisa Bellisario (la quale aveva filtrato sul nascere alcune mie precedenti richieste di cambiamento, non amando “mollare” collaboratori) per chiedere di essere trasferito ad un incarico operativo.

Perotto, a cui ero sfuggito verso il Planning dieci anni prima, fu lieto di accogliermi nuovamente nei progetti, con l’incarico di gestire un nuovo gruppo di System Engineering (GSE), dedicato alle personalizzazioni e specializzazioni dei prodotti (che in azienda chiamavamo prodotti non standard – PNS). Racimolate all’interno due dozzine di persone, mi ritrovai così a lavorare di gran lena a un mucchio di piccoli progetti diversi, in posizione di responsabile ma anche spesso, considerate le carenze di organico in occasione di consegne quasi sempre urgenti, con le mani immerse direttamente nei progetti.

I prodotti non standard che gestivamo erano principalmente personalizzazioni software del TC800 per applicazioni bancarie, nelle quali era richiesta l’emulazione di terminali della concorrenza o la compatibilità con protocolli di trasmissione imposti dalla rete del cliente. Per evidenti ragioni di logica industriale la nostra abilità professionale stava proprio nel soddisfare le richieste limitando gli interventi sull’hardware.

Ma realizzammo anche, ove era inevitabile e giustificato dai volumi, qualche prodotto con contenuti hardware significativi: un TC800 per bigliettazione ferroviaria, dotato di una grande tastiera per la selezione delle destinazioni e di una stampante di biglietti, che ha popolato per anni le biglietterie delle nostre stazioni; e anche il primo distributore di banconote (ATM – Automatic Teller Machine) dell’Olivetti, realizzato da un gruppo guidato da Lucio Simonotti utilizzando un dispensatore di banconote di acquisto ed un’unità di controllo TC800 racchiusi in una cassaforte, dietro una facciata blindata per la protezione dai vandali nell’esposizione su strada.

Il contatore dei prodotti non standard salì velocemente a tre cifre. La flessibilità del GSE era apprezzata sia dai commerciali, che fronteggiavano spesso richieste particolari dei clienti, sia dai progettisti dei prodotti standard, schermati dal GSE rispetto alle richieste di personalizzazione, temute perché ritenute dispersive. Fu per questa fama acquisita che nel 1979, quando l’Olivetti si imbarcò nel più massiccio dei prodotti non standard della sua storia, un’installazione di oltre 6.000 terminali in 1.200 filiali per il consorzio SDC delle Casse di Risparmio danesi, mi venne proposto di assumere il ruolo di Project Manager.

L’SDC aveva formulato delle specifiche di fornitura molto dettagliate, puntando a quello che riteneva il “meglio del meglio” senza curarsi dell’esistenza o meno sul mercato dei prodotti richiesti. Ogni sistema di filiale doveva comprendere quello che ora verrebbe denominato un “server” con connessione a rete dati X25, collegato, attraverso una linea interna multi-punto ad alta velocità (oggi si direbbe una “rete locale”, ma allora la chiamavano High Speed Link), a terminali semi-programmabili dotati, oltre che di stampanti di documenti, giornali e libretti, di video specificati dal punto di vista ergonomico nei minimi dettagli, fino al colore del fosforo (arancione) e dello sfondo (beige).

A posteriori si deve ammettere che si trattava quasi di una follia, aliena da una logica industriale: la realizzazione ad-hoc comportava infatti degli sviluppi molto pesanti per i quali il cliente non si rendeva conto di sottoporsi a forti rischi di fattibilità. D’altra parte i commerciali Olivetti, guidati allora da Vittorio Cassoni, con Enrico Rossi quale principale sistemista addetto al progetto e Alberto Sebellin come interfaccia locale col cliente, si erano ben guardati dal sottolineare tali rischi. La struttura industriale Olivetti, da parte sua, non ebbe neppure il tempo di chiedersi se avrebbe mai potuto capitalizzare lo sforzo richiesto da questo progetto su un mercato sufficientemente ampio da giustificarlo: poiché sia l’SDC che l’Olivetti desideravano un fiore all’occhiello, il matrimonio era inevitabile!

Nell’autunno del ’79 venne firmato il contratto, con circa 2.000 pagine di specifiche tecniche allegate (come PM ebbi l’onore e l’onere di siglarle tutte). L’inizio delle consegne dei sistemi era previsto dopo meno di due anni, nel 1981. Come server era stato scelto un computer della Microdata (una delle aziende su cui aveva investito Piol) e come periferiche si potevano utilizzare derivati personalizzati di stampanti e monitor già esistenti; ma per tutto il resto (software, controlli di trasmissione, terminali basati su microprocessori e rete HSL su doppino schermato) i progetti partivano da zero. Nel progetto erano quindi coinvolte molte persone, ordini di grandezza in più di quelle presenti nel “mio” GSE, e quindi il mio diventò principalmente un compito di coordinamento e controllo.

A questo punto se seguissi la cronologia il mio racconto si complicherebbe, perché nel 1980 mi venne proposto, in aggiunta, un lavoro ancora più grosso, … ma per non perdere il filo mi conviene completare prima la storia dell’SDC.

Il lavoro procedette abbastanza liscio per il tempo assegnato e riuscimmo anche a gestire col cliente qualche piccolo ritardo: si arrivò quindi entro l’81 all’installazione pilota nella sede della Cassa di Risparmio di Aalborg. Ma qui scoppiò la bomba. Devo spiegare che le specifiche ci assegnavano come tempo di attraversamento bidirezionale per il sistema di filiale in una transazione tipo, tra fine digitazione dei dati in input e comparsa sul video della risposta, un massimo di 135 millisecondi. Questo era un vincolo contrattuale accettato dall’Olivetti senza che esistessero seri modi di verificarne la fattibilità prima del progetto. Il valore derivava semplicemente dal fatto che il cliente richiedeva un tempo di risposta complessivo del sistema inferiore a due secondi e mezzo (cioè 2.500 millisecondi) e l’IBM, sapendo bene il fatto suo, si era riservata per la rete e per il calcolatore centrale il grosso di quel tempo lasciandoci, per sottrazione, le briciole.

Quando il pilota venne acceso funzionò, ma la prima risposta si fece attendere per la bellezza di 13 secondi (cioè quasi 100 volte la specifica!). Calò il gelo e dopo qualche giorno fui convocato da solo a solo in Presidenza davanti a De Benedetti, che mi guardò e mi chiese semplicemente: “Ingegnere, ce la possiamo fare o no?”. Per fortuna in quei giorni avevamo lavorato sodo per analizzare il problema: Giovanni Cervetto, un misconosciuto maestro della valutazione delle performance, aveva sottoposto ad un suo sofisticato attrezzo di analisi e previsione il funzionamento del sistema ed aveva individuato sia la causa principale del problema, un ingorgo (in gergo trashing) nella gestione della memoria virtuale del server, sia altre cause secondarie su cui si sarebbe potuto intervenire.

Su questa base, la mia risposta a De Benedetti fu: “Penso sia chiaro che il vincolo di 135 ms è stato accettato senza poter fare un’analisi seria. Quello che possiamo fare ora è intervenire per abbassare il tempo di risposta da 13 a circa 1,5 secondi con una release software che sarà pronta fra tre mesi; un’ulteriore riduzione a circa 700 ms sarà possibile tra nove mesi ed una a 350 ms tra 15 mesi, cioè entro il completamento previsto dell’installazione. Non pensiamo di poter andare oltre.” Il colloquio finì lì.

Stavolta le promesse furono mantenute, e di fronte a ciò (nonché al fatto che il nostro tempo di risposta si sommava a quello dell’IBM, per cui la nostra inadempienza residua pesava sul totale meno del dieci per cento ed era quindi quasi inavvertibile) il cliente accettò il sistema. E nel 1984, in occasione di un memorabile evento organizzato all’Hotel Danieli di Venezia, l’Olivetti ricevette simbolicamente l’assegno da 50 milioni di dollari a pagamento dell’installazione completata e accettata.

Le Casse Danesi hanno in seguito operato per un decennio con il nostro sistema; hanno solo avuto difficoltà prima ad ampliarlo e poi a sostituirlo (quando ormai era vecchio), proprio perché era totalmente tagliato sulle loro richieste. L’Olivetti, come ora vedremo, era partita nel frattempo per altri grandi sviluppi e non provò neppure a riutilizzarlo (salvo qualche unità periferica) per altre installazioni.

Ritorniamo ora al 1980, poco dopo l’inizio del progetto SDC. Sotto la guida di De Benedetti l’azienda aveva subìto severi contenimenti di spese, dure manovre di alleggerimento (soprattutto del management) e brillanti azioni di rinnovo dell’immagine esterna, particolarmente verso il mondo finanziario. Nel frattempo la gamma di prodotti creata negli anni ’70 era stata all’altezza di sostenere l’azienda, ma per mantenere il campo era ormai necessario rinnovarla ed aggiornarla.

Perotto, a seguito di una ristrutturazione “verticale” delle operazioni, aveva visto suddividere la “sua” R&S per settori di prodotto ed era passato a dirigere una società consociata.

A Marisa Bellisario era toccato a suo turno il duro compito di guidare l’Olivetti Corporation of America, da cui Elserino Piol era rientrato per tornare ad occuparsi di strategie.

A reggere l’area dei sistemi (Gruppo Informatica Distribuita) era stato chiamato un astro sorgente, Enrico Pesatori, che aveva prospettato a De Benedetti la realizzazione di una nuova linea di prodotti.

Con questa linea sarebbe stato possibile un grande recupero di competitività: oltre a coprire con un’unica gamma tutti i settori applicativi nei quali fino alla generazione precedente si erano utilizzati prodotti differenziati, il piano prevedeva, a pari volumi aggregati, una riduzione di circa due terzi del monte ore di manodopera per la produzione delle unità centrali. Ovviamente questo avrebbe creato un problema gigantesco di personale, del resto reso inevitabile dal progresso tecnologico, ma l’idea era che si sarebbero anche espansi di molto i volumi.

Il progetto della nuova linea partì, ma dopo poco il responsabile delle aree di sviluppo più critiche, Giuliano Raviola, si ammalò seriamente, aggiungendo una nuova criticità a quella intrinseca negli ambiziosi obiettivi prospettati. Poiché nel contesto del progetto SDC coordinavo già in effetti l’attività di molti dei collaboratori di Raviola, Pesatori mi propose allora di prendere direttamente le redini della Divisione Sistemi all’interno del Gruppo Informatica Distribuita.

Il fardello, assommato ai precedenti, sarebbe stato pesante, e in più la mia posizione avrebbe gravato su aree di produzione alle quali non avevo titoli per essere sovrapposto. Così si arrivò in breve ad un ulteriore rimpasto, ricreando un’organizzazione “funzionale” con tutti i progetti dei sistemi riuniti ed affiancati all’aggregato delle produzioni corrispondenti. Io fungevo da direttore dei progetti dei sistemi.

La mia nuova gatta da pelare era mantenere le promesse di Pesatori, utilizzando una struttura di circa ottocento progettisti, più l’equivalente di un paio di centinaia di consulenti già ingaggiati all’esterno, che si erano già fatte le loro idee di cosa e come fare. L’esperienza mi diceva cha questa sarebbe stata una situazione piuttosto scomoda: mentre a differenza dai tempi del Planning non sarei stato un interlocutore impotente dei progettisti, poiché li comandavo, avrei avuto in più un vincolo importante, cioè l’esigenza di non smentire le scelte del mio nuovo capo, al quale dovevo l’investitura nel mio ruolo.

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