Presentazione

Il quarto raduno, tenutosi a Milano il 24 marzo 2012, è stata anche l’occasione per rivedere dopo tanti anni, probabilmente 35 ma forse qualcuno in più, un vecchio collega ed amico che vive a Roma e di cui avevo perso le tracce. Ci siamo ritrovati grazie ad Internet e olivettiani.org; l’incontro epistolare è poi sfociato in un reincontro collegiale con lui ed altri amici dei vecchi tempi.

Sto parlando di Fausto Capasso, in Olivetti dal marzo 1956 alla primavera del 1980, un lungo periodo trascorso a Ivrea fra la Divisione Telescriventi e l’Ufficio Brevetti, l’Ufficio Sicurezza Prodotti e la Direzione Acquisti.

Alla verde età di 73 anni, Fausto ha intrapreso un corso di scrittura per adulti per imparare, secondo lui, ad esprimere meglio i suoi sentimenti e “lasciare qualcosa di me ai figli e ai nipoti!”. Il primo risultato è un libro di ricordi familiari uscito nel 2010, di cui con grande modestia l’autore non vuole parlare in questa sede.

Ma, fortunatamente per noi, la vena di scrittore non si è arrestata qui. Un primo episodio di ricordi “olivettiani” ci è stato recapitato poco tempo fa. Ve lo proponiamo qui di seguito, sperando che i recenti incontri con altri colleghi siano il catalizzatore per ulteriori ricordi e aneddoti della sua vita olivettiana.
mb

I rapporti con l’Olivetti, dal 1949 al 1956

di Fausto Capasso

La prima presa di contatto con la Olivetti

Zia Maria viveva con noi a Roma, ma era torinese  e conosceva bene la differenza di trattamento che c’era fra chi aveva la fortuna ed il merito di lavorare alla Olivetti, ad Ivrea, e chi invece lavorava in qualunque altra ditta della zona, e in particolare alla FIAT. Dopo la mia laurea, nel 1949, mi consigliò di andare a Torino dalla cugina Tilde, persona molto sensibile e colta, della quale ho un ricordo molto caro.  Zia Tilde mi preparò una bella lettera di presentazione per il dottor Trossarelli, che era uno dei massimi esponenti della Olivetti di allora ed era stato suo amico d’infanzia.

Il dottor Trossarelli fu contento di ricevere notizie della sua cara amica, ma poi si rabbuiò e mi disse che in Olivetti le lettere di raccomandazione erano considerate molto negativamente, tanto da poter essere motivo di preclusione. Replicai che la lettera di Zia Tilde doveva essere considerata come referenza dal punto di vista della mia serietà personale, e non come raccomandazione, e che d’altra parte io non ero in grado di conoscere altre vie per poter prendere contatto con la Olivetti.

Mi disse allora che in quel momento ad Ivrea non c’erano assunzioni e mi segnalò che era in programma a Roma un corso per “produttori” (così si chiamavano allora i venditori porta a porta). Una volta assunto non sarebbe stato poi difficile ottenere una sistemazione adeguata al mio titolo di studio. “La Olivetti”, mi disse, “non tiene un ingegnere a fare il produttore, se dimostra di essere in grado di svolgere attività di livello più elevato”.

Il corso per produttori

Mi presentai al dottor Micheloni, direttore della Sede di Roma, e mi iscrissi al corso per produttori, che si svolse in un seminterrato di un palazzo in Piazza Barberini e durò una settimana.

Ci furono fatti conoscere i prodotti Olivetti di allora, tutti all’avanguardia nel mondo dal punto di vista tecnologico ed anche da quello del “design”. Fra i tanti “trucchi” che ci furono insegnati per la vendita delle macchine da calcolo c’era quello di staccare con destrezza il foglietto con la stampa del risultato, per presentarlo poi sotto il naso del cliente, in modo da mettere in evidenza il fatto che le nostre macchine erano scriventi, caratteristica considerata molto importante.

Al mattino della domenica ci furono gli esami. Eravamo una trentina, e oltre a me c’era soltanto un altro laureato, se ben ricordo in legge. Gli esaminatori, una decina di persone, si trovavano dietro un grande tavolo, una specie di lunga cattedra, sul quale erano allineati tutti i prodotti Olivetti di allora. (tranne naturalmente le telescriventi, che non dovevano essere vendute “porta a porta”).

Mi furono fatte domande molto diverse da quelle fatte agli altri. La prima riguardava la macchina per scrivere Lexikon, da poco entrata in produzione. Era una macchina rivoluzionaria, con soluzioni meccaniche ed estetiche molto brillanti che io non ebbi difficoltà a mettere in evidenza.

Passammo poi all’esame delle macchine da calcolo elettromeccaniche: c’erano tre modelli, la Summa 14, che faceva addizioni e sottrazioni, la Multisumma 14, che faceva anche le moltiplicazioni, e la Divisumma 14 che le operazioni le faceva tutte e quattro.

“Se lei fosse nel Consiglio Direttivo della Olivetti continuerebbe a produrre tutti questi modelli oppure riterrebbe opportuno eliminarne qualcuno ?”

La differenza di prezzo fra la Multisumma e la Divisumma era piccola, certamente non tale da giustificare la scelta di un prodotto meno completo, e infatti avevo osservato che le statistiche dei mesi precedenti indicavano una sola Multisumma 14 venduta a fronte di più di cinquanta  Divisumma 14. Risposi che mi sembrava ovvio eliminare la Multisumma 14. Questa risposta provocò un grande entusiasmo, per me inaspettato: evidentemente era in corso una polemica con qualche grosso personaggio di Ivrea che intendeva continuare la produzione della Multisumma, chissà per quale motivo.

L’esito dell’esame era stato molto migliore di quanto io potessi sperare e nei miei confronti c’era stato qualcosa di più che una semplice promozione. Sarei potuto entrare già allora in Olivetti, in un momento di grandissimo sviluppo, e forse la mia carriera in quella ditta sarebbe stata più brillante di quanto poi è stata con il mio ingresso sei anni più tardi. Ma sarebbe stato un po’ come entrare dalla finestra e non dalla porta principale, e questa considerazione fu uno degli elementi che mi portarono a preferire un’altra strada, quella del Corso Radar del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

I colloqui per l’assunzione alla Olivetti, sei anni dopo

Dopo aver frequentato il Corso Radar, durato un anno, io ho lavorato per cinque anni alla FACE Standard di Milano, con molto impegno nonostante il trattamento tutt’altro che soddisfacente. Poi, nel 1955, i rapporti personali con il Direttore della Produzione peggiorarono fino al punto di farmi desiderare di cambiare aria. Lessi sul Corriere della Sera che la Olivetti cercava “tre terne di giovani ingegneri” e presentai la mia domanda.

Ad Ivrea mi ricevettero l’ing. Nicola Tufarelli, allora nell’Ufficio Personale, e Mario Tchou, ingegnere italo-cinese, elemento di punta per i programmi di sviluppo della Olivetti nel settore elettronico. Fu un colloquio molto interessante, con due persone che avevano fatto di tutto per farmi sentire a mio agio. Ricordo come apprezzarono, ridendo, l’inizio di risposta alla loro domanda su cosa ritenevo di aver imparato nei cinque anni di lavoro alla FACE Standard : più che cosa si doveva fare io avevo imparato che cosa non si doveva fare.

Mario Tchou

Mario Tchou era nato a Roma ed a Roma aveva fatto i suoi studi, fino al liceo. Credo che fosse figlio dell’ambasciatore cinese in Italia. Poi, durante la guerra, era andato negli Stati Uniti e si era laureato ad Harvard. Era di intelligenza molto brillante, di gran lunga superiore alla media. Era anche affabile ed io ricordo con quanta confidenza, allora inusuale, trattava con tutti ed anche con me, nei primi tempi dopo la mia assunzione, nonostante la grande differenza di livello nella nostra posizione aziendale.

Un giorno mi mostrò con fierezza la sua nuova automobile, una Buick, appena arrivata dagli Stati Uniti. Purtroppo le automobili americane di allora erano progettate per circolare soprattutto negli USA, dove nelle larghissime autostrade ed anche con poco traffico la massima velocità consentita e fatta rigorosamente rispettare era (e credo sia ancora adesso) di circa 95 chilometri all’ora. A velocità superiori, facilmente raggiungibili grazie alla potenza dei loro motori, la loro tenuta di strada era molto precaria.

Per poter esaminare durante il viaggio alcuni documenti, in preparazione di un incontro a Milano, Tchou aveva rinunziato a guidare lui stesso ed aveva chiesto un autista, che non aveva dimestichezza con quel tipo di automobili. In quel periodo l’autostrada Torino-Milano non era stata ancora raddoppiata ed era solo a tre corsie, con l’assurda possibilità che la corsia centrale fosse impegnata nel sorpasso sia dall’una che dall’altra direzione. C’erano già stati molti incidenti con scontro frontale, tanto che quella corsia veniva chiamata “corsia della morte”. E corsia della morte è stata anche per Mario Tchou e per il suo autista. Al tentativo di frenata la Buick aveva fatto un testa coda e si era schiantata contro un camion proveniente da Milano.

Fu un grande dolore per tutti noi e in particolare per me. Fu anche una gravissima perdita per la Olivetti, che su di lui contava per lo sviluppo dei suoi programmi nel campo dell’ elettronica.

Le riserve sulla possibilità di assunzione immediata

Alla fine del colloquio Tufarelli e Tchou mi dissero che sarei stato assunto anche subito ma che già da tempo era in programma la assunzione in Olivetti di un altro ingegnere della FACE Standard. Per una questione di fair play, la Olivetti non riteneva opportuno assumere contemporaneamente più di una persona proveniente dalla stessa ditta. L’altro ingegnere era ancora incerto se accettare o meno, e la mia assunzione immediata sarebbe stata possibile soltanto se lui avesse rinunziato. Io avevo capito subito di chi si trattava : era Arnaldo Pasini. Era mio collega nella FACE Standard, ma ci incontravamo raramente perché lui era nel settore telefonico ed io in quello radio. C’era comunque stima e simpatia certamente da parte mia verso di lui e credo anche da parte sua verso di me. Poi lui rinunziò, almeno per quell’anno, e fu invece assunto in Olivetti l’anno successivo.

L’incontro con Adriano Olivetti e l’assunzione

Fui convocato per un secondo colloquio, questa volta a Milano. Insieme all’ing.Tufarelli c’era l’ing.Berla, allora Direttore del Personale.

Al termine del colloquio, anch’esso molto positivo per me, mi fu detto che dovevo parlare con “l’ingegnere”. Io non capii subito che si trattava di Adriano Olivetti. Secondo quanto mi è stato poi detto, suo padre, l’ing.Camillo, fondatore della ditta, assumeva personalmente tutti i suoi dipendenti, compresi gli operai. Ma le dimensioni della ditta erano cresciute e Adriano doveva limitarsi a partecipare personalmente solo all’assunzione degli ingegneri, e neanche tutti.

La persona che avevo incontrato senza sapere chi fosse era affabile e simpatica. Aveva un fascino particolare e si vedeva, anzi si sentiva, che era un uomo molto speciale, per intelligenza e bontà d’animo. Quando gli dissi che per un anno ero stato insegnante di disegno in una scuola professionale lui si infervorò e disse che il disegno era molto più importante di quanto normalmente si crede. Io mi guardai bene dal deluderlo e non gli dissi che, pur avendolo insegnato, il disegno non mi piaceva e che disegnavo molto male.

Pochi anni dopo Adriano Olivetti morì prematuramente, in modo improvviso, ed io ne provai un grande e sincero dolore. Ma non ero solo io ad essere addolorato, era tutta la città di Ivrea che soffriva per la perdita di un grande uomo, che tanto bene aveva operato.

L’arrivo ad Ivrea

Presi servizio in Olivetti il 1 marzo 1956. Il miglioramento nella retribuzione era stato nettissimo, dalle 106.000 lire della ditta precedente alle 160.000 della Olivetti. Con mia sorpresa avevo anche ricevuto una immediata elargizione a fondo perduto di 30.000 lire per affrontare le prime spese di sistemazione ad Ivrea. Ma oltre a questi importanti aspetti economici fu per me molto positivo il fatto di poter subito constatare che, contrariamente a quello a cui ero abituato da tanti anni, l’ambiente in cui avrei dovuto lavorare era accogliente, aperto, con buoni rapporti con tutti, a tutti i livelli.

Mi sembrava di sognare.

La famiglia Capasso nel cortile della casa di Ivrea (Pasqua 1977): con Elena e Fausto i figli “eporediesi” Alessandra, Andrea, Isabella, Maria Letizia e Alberto

Il  monologo di Laura Curino

Recentemente ho assistito, al Teatro Valle, qui a Roma, ad uno spettacolo consistente in un lungo monologo dell’attrice Laura Curino. Lo avevo già visto qualche tempo prima, alla televisione, recitato all’aperto ad Ivrea, con tanto pubblico e con grande successo. Si trattava del racconto, fatto in prima persona da una bambina di Torino che da un suo amichetto saputello aveva sentito parlare tanto bene della Olivetti..

Il pubblico di Roma ha apprezzato la bravura dell’attrice, ed ha applaudito molto, anche se credo che non abbia capito il vero significato di quel monologo, perché la lunga e dettagliata descrizione della bella situazione alla Olivetti di un tempo corrispondeva ad una realtà che ad Ivrea era ben conosciuta, mentre a Roma poteva sembrare una fantasticheria fuori dal mondo reale. Chi non ha vissuto direttamente quel periodo straordinario della Olivetti non si può rendere conto dell’atmosfera che c’era allora in quella ditta : sincera amicizia, proficua collaborazione e grande efficienza a tutti i livelli.

Tutte cose che purtroppo non esistono più.
segue

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