Federico Faggin

Era un giovane perito industriale vicentino che avevo conosciuto da vicino perché lavorava anche lui nei laboratori di progettazione circuitale di Remo Galletti. Ormai ero insediato nella Direzione del personale e tutti i giorni ricevevo persone che avevano da chiedere qualcosa o che chiamavo io per comunicargli un loro nuovo incarico, un passaggio di categoria o un aumento di stipendio. Un giorno venne da me Faggin e mi presentò le sue dimissioni perché voleva andare a Padova e laurearsi in fisica, in particolare su quella dello stato solido. Mi consultai con Galletti e con Tchou e visto il valore di questo ragazzo, decidemmo di dargli un’aspettativa assegnandogli anche una borsa di studio. Quando glielo comunicai ne fu veramente felice. Gli prospettai anche un futuro impiego presso la SGS, un’impresa di componenti a semiconduttori fondata dall’Olivetti insieme con l’ingegnere Floriani, l’allora fondatore e proprietario della Telettra, un’azienda di telecomunicazioni molto avanti nel campo dei ponti radio. Faggin si laureò poi a pieni voti a Padova e andò alla SGS, che allora aveva un rapporto di cooperazione tecnologica con la californiana Fairchild Semiconductors, il primo seme della Silicon Valley. Inviato presso la Fairchild per un’esperienza di lavoro, Faggin si dedicò allo sviluppo dell’originale MOS Silicon Gate Technology. Passato all’Intel nel 1970, Faggin condusse lo sviluppo del primo microprocessore, l’Intel 4004, e in seguito realizzò l’8080, il microprocessore che è stato alla base dei Personal Computer a larga diffusione (IBM in primis).

Mi viene spontanea un’osservazione. Noi italiani siamo sempre stati capaci di ideare e creare grandi cose, ma quando si è trattato di farle entrare nella normalità della vita, com’è quella produttiva di un’impresa, siamo stati solo capaci di distruggerle. Così, senza neppure un’ora di proteste sindacali è scomparsa l’Olivetti, una grande multinazionale italiana proiettata nel futuro tecnologico; così pure tutte le sue collegate, come ad esempio l’Olivetti Controllo Numerico, così la Telettra venduta all’Alcatel che poi l’ha diluita in se stessa; così la SGS confluita nella Thomson francese; così l’industria chimica, la siderurgica e la tessile, e così tante altre.

A proposito di Faggin, ha avuto un alto riconoscimento dal Presidente Obama; vale la pena sentire questa sua intervista su You Tube: www.youtube.com/watch?v=4faQr0iVsF8

Pregnana Milanese

L’Elea 9003 aveva avuto successo e ormai si costruiva in serie, perciò Borgolombardo non bastava più e per farle spazio si decise di trasferire i Laboratori di Ricerca e Progetto a Pregnana Milanese, un piccolo borgo nella campagna lombarda a pochi chilometri da Milano a fianco dell’autostrada per Torino, dove l’Olivetti aveva comprato un grande terreno.

Adriano Olivetti badava molto all’estetica delle fabbriche e degli uffici che aveva sempre fatto progettare dai migliori architetti del tempo, perciò per la nuova sede dei Laboratori scelse l’architetto francese Le Corbusier.

Venne a trovarci a Borgolombardo per capire l’ambiente di lavoro e passò anche nei laboratori di Galletti. Io stavo montando un circuito stampato, uno dei primi, nati a quei tempi per eliminare le filature fatte a mano. Con le loro piazzole per la saldatura e le pista di rame avevano anche una certa estetica, perciò lui se ne interessò e mi chiese molte spiegazioni sull’impiego.  Dopo la dipartita dell’ingegner Adriano e di Mario Tchou non se ne fece più niente e il bellissimo progetto schizzato da Le Corbusier fu sostituito a Pregnana da uno squallido capannone in ferro, di quelli usati per i magazzini.

Erano cominciati i tempi duri, che poi ci accorgemmo essere la normalità. Fino allora avevamo vissuto avvolti nella bambagia e coccolati da tutti, come i bambini; ora bisognava diventare adulti.

Ottorino Beltrami

Lo incontrai per la prima volta a Barbaricina, dove lui era venuto a visitarci nella sua qualità di Direttore della Olivetti Bull, con la quale collaboravamo per conoscere i problemi del nostro futuro mercato dei calcolatori elettronici. Era con Mario Tchou, nell’ingresso della nostra villetta, e lui me lo presentò. Beltrami era un signore di media statura con gli occhi chiari e con un forte accento toscano che seppi poi essere proprio quello di Pisa, sua città natale. Mentre eravamo lì all’ingresso, attorno si era formato un piccolo capannello di noialtri, perché Tchou ci teneva a presentarci tutti, uno ad uno.

A Barbaricina noi si teneva un gatto per combattere i topi di campagna, affamati anche dell’isolamento dei cavi elettrici; e quella mattina si unì a noi anche lui, e per farsi notare cominciò a strusciarsi con molto impegno su una gamba di Beltrami, ma mi stupì il fatto che lui neppure se ne accorgesse. Qualcuno mi disse poi che quella era la gamba artificiale dell’Ammiraglio Beltrami.

Ufficiale di Marina della Carriera Comando, Beltrami aveva fatto l’Accademia di Livorno con ottimi voti. Intanto era scoppiata la II Guerra mondiale, perciò fu imbarcato come Comandante di un sommergibile  e fu ferito a una gamba da una scheggia. Gli venne una setticemia, infezione allora non curabile perché non era ancora stata scoperta la penicillina, e dovettero amputargli la gamba, però aveva trovato una protesi molto efficace perché a vederlo camminare si notava appena che claudicasse.

Sono sicuro di non sbagliare dicendo che tra tutti i Comandanti di Marina assunti da Adriano Olivetti perché ne sortissero dei buoni manager, Beltrami è stato il migliore in assoluto e anche l’unico, come poi ha dimostrato la sua brillante carriera sia in Olivetti sia fuori e anche a livello multinazionale, ad esempio nella stessa General Electric.

Lui teneva molto al suo sommergibile e da allora ne ha conservato una fotografia che ho sempre visto sul suo tavolo in tutti gli incarichi che ha avuto. In fondo al suo animo è sempre rimasto un marinaio fedele al suo ruolo. Quando dall’Olivetti volevano mandarmi uno dei tanti Comandanti per coprire un ruolo nella Divisione elettronica andavo da lui. Ottorino tirava fuori da un cassetto un suo annuario dove c’erano tutti gli ufficiali con l’indicazione delle votazioni riportate all’Accademia e mi diceva «Questo sì, è stato primo al suo corso.» oppure «No questo non ha brillato, meglio lasciar perdere.».

Una volta in un pomeriggio milanese ero al cinema per un film di guerra che parlava di sommergibili americani. In una scena si vide il Comandante che accendeva un sigaro e si sentì da qualche fila dietro di me una voce toscana che diceva: «Bischero! Nei sommergibili non si fuma!» si può immaginare chi fosse.

Per usare una definizione di Mauro Ballabeni, peraltro molto azzeccata, Ottorino, come me e tanti altri, è un superstite del calcolo elettronico. Fino a un paio d’anni fa lo incontravo al nostro comune Rotary Club, ma poi la sua gamba gli ha tolto mobilità e non l’ho più visto, ma l’ho sentito al telefono ed è sempre quello di prima, arguto e sveglio come non mai.

Qualche anno fa ha scritto un libro sulla sua esperienza mentre era sul Ponte di Comando della Olivetti, ma non vi trovai cenno sul perché questa nostra amata impresa non esistesse più. Gli chiesi il motivo, e lui semplicemente, ma argutamente, mi disse: «Perché non mi piace di parlar male di altre persone.».

Tuttavia bisogna che prima o poi venga fuori qualcuno che ne parli male, perché questi sono aspetti importanti della storia industriale del nostro Paese, e bisogna far capire alle generazioni future come dovrebbero comportarsi per non ripetere sempre gli stessi errori.

Spero che Ottorino mi perdoni questi aneddoti su di lui che la mia memoria ha rispolverato con l’occasione di queste note. Gli garantisco che l’ho fatto con il rispetto e con l’affetto che lui ha meritato da tutti quelli che, come me, hanno avuto la fortuna e l’onore di conoscerlo e di lavorare con lui. ** segue

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