di Gianni Di Quattro

Una vita alla Olivetti, una vita piena di ricordi di momenti e di persone, una profonda consapevolezza di avere avuto fortuna per avere lavorato per decenni nella azienda di Ivrea, quella creata da Camillo e riprogettata da suo figlio Adriano, uno degli italiani più interessanti del secolo scorso.

Mi capita ogni tanto di riflettere sul suo percorso, sulla sua fine ingloriosa, sulla mediocrità dei suoi ultimi anni. E mi viene da pensare a quando il Presidente Visentini, rifiutando le ipotesi che aveva presentato e progettato Ottorino Beltrami, in quel momento amministratore delegato, che avrebbero mantenuto la indipendenza della azienda, decise di cederla a Carlo De Benedetti. Qualcuno disse per assicurarsi così la sua permanenza al vertice della società per i successivi anni, chissà quale è la verità.

I primi anni di De Benedetti alla Olivetti con il potere che aveva, come maggior azionista ed amministratore delegato, sono stati molto positivi. Certamente la competenza di De Benedetti, il suo coraggio e la sua spregiudicatezza hanno giocato un ruolo positivo. Il personale reagì bene e il management fece di tutto per farsi accettare dal nuovo capo.

Ma forse non si dice che il successo di quegli anni si deve al lavoro che Ottorino Beltrami, con la collaborazione fondamentale di Marisa Bellisario e con la partecipazione indispensabile di Elserino Piol, fece nei cinque anni precedenti. Sono stati gli anni della trasformazione della meccanica in elettronica, della uscita della prima macchina per scrivere elettronica nel mondo, della nuova serie delle macchine contabili e per l’organizzazione dell’ufficio, dei nuovi prodotti e sistemi on line. Carlo De Benedetti arrivando trovò quindi la reazione positiva del personale e i nuovi prodotti competitivi che permisero il raggiungimento di importanti obiettivi.

Pochi saranno d’accordo ma questo punto è fondamentale per la storia della Olivetti, anche per la sua fine.

Infatti, De Benedetti psicologicamente dovette pensare che ormai l’azienda era raddrizzata e lasciò ampio spazio al management, occupandosi solo di grandi strategie come la tentata alleanza prima con la Saint Gobain francese e poi con la ATT americana, entrambe fallite. E naturalmente occupandosi dei propri affari cercando di cavalcare nel mercato il successo che considerava acquisito grazie alla Olivetti.

Quindi il potere passò nelle mani dei gruppi tecnici, di progetto e di produzione, si eliminò la manutenzione del mondo commerciale, si tentarono esperimenti organizzativi che furono un disastro economico senza risultati commerciali di rilievo, si inserirono nel management personalità provenienti da altre aziende del settore, come IBM per esempio, la politica del personale divenne solo amministrativa nel senso che si limitava a gestire e non aveva più valore per l’azienda, aumentò la conflittualità interna, si commisero errori nella interpretazione del mercato e nella produzione di sistemi fuori tempo e fuori mercato.

Mentre avveniva tutto questo De Benedetti continuava a gestire i suoi affari, Beltrami lasciò l’azienda, la Bellisario fu messa da parte e poi anche essa lasciò. I costi aumentavano e i fatturati non crescevano, mancò coraggio e spirito imprenditoriale, l’azienda era divenuta una qualsiasi ed in crisi in aggiunta.

A quel punto De Benedetti cercò di intervenire continuando a cambiare amministratori delegati, tuttavia senza una analisi precisa e senza obiettivi. Negli ultimi anni l’azienda si salvò grazie all’ingresso nel settore delle telecomunicazioni, merito della solita intuizione di Elserino Piol, cosa che consentì poi a Colaninno, ennesimo amministratore collocato da De Benedetti, di utilizzarla come merce di scambio per comprare la Telecom Italia e di fatto chiudendola.

Forse, se nei primi anni di De Benedetti l’azienda avesse avuto meno successo, sarebbe cambiato il suo percorso, non sarebbe precipitata nella incontrollata banalità economica e imprenditoriale di fatto cancellando il suo passato. Rimasto solo negli occhi e nella mente dei vecchi.

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