di Silvano Brandi
dall’introduzione del libro Ignazio Gardella a Ivrea, la Mensa e il Centro Ricreativo Olivetti 

Ho ancora viva l’immagine di un gruppo di giovani ingegneri, fisici e informatici che discutono animatamente sulle qualità letterarie e le problematiche linguistiche sollevate da Horcynus Orca, romanzo fiume sperimentale di oltre mille pagine scritto da Stefano D’Arrigo, un caso letterario che ebbe una lunghissima incubazione e che sollevò enorme interesse e aspettativa prima ancora della sua pubblicazione, e fu poi dimenticato. Era l’autunno del 1975 e i miei colleghi e io ci trovavamo a colazione alla Mensa Olivetti a Ivrea. Ci si incontrava ogni giorno in un angolo della mensa con una piacevole vista attraverso ampie vetrate continue sulla vegetazione circostante e su un roccione affiorante. Fiorivano qui discussioni animate con altri colleghi, tra cui persone di grande qualità, mescolando amicizia e intelligenza. Si parlava dell’ultimo film, dei libri più recenti, della mostra appena inaugurata, senza trascurare i classici, o ci si interrogava su dove stesse andando il mondo in quegli anni difficili. Era certamente frutto dello spirito che aleggiava alla Olivetti in quell’epoca, ma anche della stimolante architettura in cui ci trovavamo, che induceva ad attardarsi, anche dopo aver consumato il pasto, e a trattare argomenti che poco avevano a che fare con il lavoro quotidiano. L’architettura mi ha sempre affascinato. Sin da ragazzo condividevo questa passione con due tra i miei più cari amici di gioventù che avrebbero poi avuto brillanti carriere accademiche in importanti facoltà di Architettura e con i quali ci impegnavamo in appassionanti discussioni sulle più recenti tendenze architettoniche. Facevamo assieme anche lunghi “pellegrinaggi” non solo per visitare castelli, cattedrali e palazzi classici, ma anche a Ronchamp, Amsterdam, Dessau, Marsiglia, per ammirare dal vivo le icone dell’architettura moderna. Al momento di decidere a quali studi dedicarmi fui a lungo in dubbio tra architettura e ingegneria per poi scegliere, forse con qualche rimpianto ancora oggi, quest’ultima opzione.

Quando fui poi assunto come giovane ingegnere dalla Olivetti, un’azienda che avevo cercato, attratto dal fascino che esercitava, il mio arrivo a Ivrea fu una vera rivelazione e scoperta. Finalmente potevo non solo “vedere” un’architettura di qualità, ma scoprirla ogni giorno con nuovi occhi, esserne immerso: letteralmente “vivere” l’architettura.

Ed effettivamente nei tanti anni che mi è capitato di stare a Ivrea ho sempre avuto la fortuna di vivere e lavorare in contesti di grande rilevanza architettonica: dal primo ufficio nella ICO (Figini e Pollini, 1934-39), al Centro Studi (Vittoria, 1951-55), alla Nuova ICO (Figini e Pollini, 1939-49), a Palazzo Uffici (Fiocchi, Bernasconi, Nizzoli, 1955-63). Qualche volta capitava di mangiare una pizza nel ristorante dell’Unità Residenziale Est, più nota come Canarinia, progettata da Cappai e Mainardis (1968-71) e così chiamata perché alcuni riconoscevano nella sua struttura i tasti di una gigantesca macchina per scrivere e altri delle gabbiette per canarini. Per non parlare delle costruzioni olivettiane all’estero dove mi è capitato di essere ospitato almeno per qualche tempo, come il Training Center Olivetti di Haslemere, in Inghilterra, progettato da James Stirling (1973) o le torri del Bürohaus Olivetti di Francoforte disegnate da Egon Eiermann (1968-72).

Ho poi abitato nell’Unità Residenziale Ovest, comunemente chiamata Talponia (Gabetti e Isola, 1971) perché in parte costruita sottoterra, e infine a Villa Rozzi (1952-1961), una residenza progettata da Ignazio Gardella. Grazie a questo privilegio, penso di aver maturato e sviluppato una particolare sensibilità all’ambiente architettonico, che mi aiuta a scoprire quasi ogni giorno nuovi aspetti e a cogliere e godere delle emozioni che una buona architettura può procurare. Non mi illudo di aver capito tutto, avendo ben presente l’avvertimento di Ignazio Gardella: «Il significato essenziale dell’architettura, come quello della musica e della poesia, è un significato che non si riesce a contenere nei confini di una definizione. Si arriva a capirlo solo scavando dentro e fuori di noi, nel rapporto con uomini e cose, con la realtà che ci circonda come sintesi da farsi nel proprio personale laboratorio di una complessa molteplicità di tesi e antitesi». Questa sensibilità mi ha spinto ad apprezzare non solo il valore formale delle architetture e la rispondenza alle esigenze funzionali, ma anche ad approfondire il contesto storico in cui sono sorte, la committenza, le relazioni instaurate con altre opere e con l’ambiente, la collocazione della singola opera nel percorso evolutivo dei protagonisti che l’hanno creata, e infine, aspetto non secondario per un architetto, anche i vincoli e gli aspetti economici.
È in questa mia fascinazione per l’architettura che un ruolo particolare è stato giocato dalla Mensa Olivetti di Ignazio Gardella, luogo che ho potuto conoscere e vivere giorno dopo giorno nell’epoca del suo massimo fulgore, animata e apprezzata quotidianamente da migliaia di frequentatori. Un’architettura che non a caso, assieme al Dispensario Antitubercolare di Alessandria, alla Casa alle Zattere a Venezia, al Teatro di Vicenza e alla Scuola di Architettura di Genova era tra quelle cui lo stesso Gardella si sentiva più legato, col suo perfetto e armonico inserimento nell’ambiente, le sue viste verso l’esterno continuamente mutevoli, e le stagioni del bosco che si avvicendavano, quasi proiettate all’interno dell’edificio.

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