I Periti industriali e gli operai di laboratorio

I gruppi di lavoro dei Laboratori erano organizzati così: c’era il capo progetto che dava le dritte sulle cose da fare; da lui dipendevano uno o più laureati in varie discipline come fisica, matematica, ingegneria, ma anche alcuni periti industriali, in genere diplomati in elettrotecnica, che collaboravano alla messa a punto e al collaudo degli apparati progettati. A parte c’era un gruppo di operai, montatori elettricisti o meccanici, in genere pisani, che costruivano materialmente le parti meccaniche e facevano i cablaggi elettrici su indicazioni dei periti. Erano tutti giovanissimi e molto simpatici. Da loro si riusciva ad avere le informazioni su quello ci serviva e dove si poteva trovarlo a Pisa o a Lucca. Tra questi operai ce n’era uno simpaticissimo che parlava con forte accento toscano ed era noto come “V=costante” perché andava in giro su un motorino a gran velocità e una volta che non gli riuscì di frenare finì diritto in un negozio di frutta e verdura, per fortuna senza conseguenze.

Tra i laureati, i periti e gli operai esisteva una sorta di segregazione castale, per cui, pur lavorando gomito a gomito ed essendo tutti più o meno coetanei, tra loro si davano del “lei”. «Scusi ingegner Tizio…», diceva il perito industriale, «Mi dica signor Caio…» rispondeva il laureato. La stessa cosa con gli operai. «Signor Giovannini, mi faccia questo cablaggio per favore».

Al momento la cosa mi meravigliò alquanto, ma da persona ben educata mi adeguai; più tardi capii il perché. Nell’Olivetti i laureati venivano presi per una carriera direttiva, perciò erano destinati a diventare “dirigenti”, vale a dire a passare in una categoria di livello superiore a quella impiegatizia, invece i periti industriali erano destinati a una carriera esclusivamente tecnica e professionale. Questa spartizione dei rispettivi ruoli cominciava da subito, appena entrati in azienda; tutti lo sapevano e si comportavano di conseguenza, ma allo stesso tempo la cosa creava nei diplomati una sorta di complesso d’inferiorità da cui faticavano a liberarsi.

Per quanto mi riguarda io ho conosciuto dei periti industriali che avrebbero dato i punti a molti laureati, e tra questi c’era l’amico Lugari. Carissimo Lugari, chissà dov’è e se c’è ancora. Lui veniva dalla Olivetti Bull ed era stato assegnato al gruppo delle unità fuori linea per la sua esperienza sulle macchine meccanografiche. Erano trascorsi due anni e il gruppo era passato alle mie dipendenze, mentre Martin era andato a dirigerne un altro orientato su apparecchiature sofisticate, come la lettura ottica dei caratteri. Da Lugari imparai molto, specie sui disturbi che tanto ci facevano soffrire con i transistor a causa della piccolezza dei segnali, paragonabile a quella dei disturbi. Diventammo presto buoni amici e naturalmente ci demmo del tu. Lui era un accanito pescatore e passava i week end sulle rive di qualche fiume a far fuori trote e carpe. So che poi in Olivetti fece carriera e che fu fatto anche dirigente. Giustamente.

La bagnacauda

Un giorno, parlando con un perito industriale, mi pare fosse il signor Sandri di Torino, si paragonava la cucina napoletana con la piemontese e così conobbi l’esistenza della bagnacauda. Gli dissi che mi sarebbe piaciuto assaggiarla e lui pronto mi invitò: «Ingegnere, se vuole avremmo piacere di averla a casa di uno di noi perché sabato facciamo la bagnacauda.». Accettai subito e mi sentii veramente onorato dall’invito.

La casa dove andai il sabato successivo era quella di Caenazzo, un giovane perito che viveva a Pisa con la sorella, anche lei dipendente del LRE presso la segreteria, perciò con due stipendi avevano avuto modo di metter su una vera casa, contrariamente a tutti noialtri scapoli che ci arrangiavamo in stanze di affitto. La bagnacauda fu per me una scoperta per la sua bontà e insieme una mazzata per il mio stomaco, ma mi permise di stringere amicizia con tanti giovani intelligenti e simpatici al pari di un qualsiasi laureato. Credo che da quella volta mi vedessero sotto un’altra luce, quella mia vera.

Sandri lo ritrovai anni dopo a New York in una calda estate nei pressi del Museo Guggenheim. Lui lavorava alla Olivetti General Electric, società che io avevo lasciato da tempo, e anche con lui ci demmo del tu.

Caro amico Sandri, tempo fa ci sentimmo via e-mail e avvertii nelle tue parole una punta di amarezza. Va tutto bene ora? ** segue

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