A sciare sull’Abetone

A quei tempi lo sci non era uno sport popolare come oggi, ma Zeno Colò, un atleta dell’Abetone un paesino dell’Appennino toscano, lo aveva fatto conoscere grazie alla sua vittoria alle Olimpiadi della neve. La regione d’Italia dove lo sci era più sviluppato era senza dubbio il Piemonte, dove peraltro era nato. Non esistevano scarponi da sci tecnologici come quelli di oggi, né attacchi di sicurezza per salvarsi le ossa nelle cadute. Gli scarponi erano scarponi di cuoio e gomma e gli sci erano di legno con attacchi a molla.

Tra noi alcuni venivano dal Piemonte come Sandri e Fubini, e ci convinsero a fare una spedizione di prova all’Abetone.

Io avevo visto la neve sempre da lontano sul cucuzzolo del Vesuvio, e a Napoli città per la prima volta quando avevo sedici anni, perciò mi unii al gruppo senza calcolare i rischi. Tra noi c’era Guarracino, che come me non aveva mai visto la neve, Paolo Coraluppi, un giovane ingegnere di Milano venuto da poco a Barbaricina, Franco Filippazzi, che pure essendo di Milano non sapeva sciare. A Pisa mi comperai un paio di scarponi da sci di cuoio nero, dei calzettoni di lana e un paio di pantaloni come usavano allora, affusolati e stretti alle caviglie da una cinghietta.

Mia madre, da buona mamma napoletana preoccupata per la mia salute nei freddi climi della Toscana, mi aveva mandato a Pisa un maglione pesante di colore grigio fatto con le sue mani, solo che aveva sbagliato la misura e mi andava grandissimo. Le maniche superavano le mani di due palmi e in lunghezza mi arrivava quasi alle ginocchia, ma mi parve che andasse benissimo per la montagna, perciò non comprai altro.

Arrivati all’Abetone prendemmo in affitto degli sci di legno. Gli unici esperti, Fubini e Sandri, ci spiegarono come si attaccavano agli scarponi e poi ci avventurammo su una funivia. Sul cucuzzolo della montagna c’era una fitta nebbia, perciò non si vedeva cosa ci fosse più in basso. I soliti esperti ci spiegarono come si facesse per frenare a spazzaneve e ci dissero di buttarci giù nella discesa. Forse per non mostrare la fifa che ci aveva preso seguimmo il loro folle consiglio e ci buttammo, ma dopo neanche dieci metri eravamo tutti a terra fuori pista nella neve alta senza sapere come fare per rialzarci. L’orgoglio ebbe il sopravvento perché ci rialzammo e a furia di cadute uscimmo anche dalla nebbia. Attorno a me non vidi più nessuno degli altri, tranne Coraluppi.

Davanti a noi c’era una discesa ripidissima con in fondo le case del paese. Paolo e io ci guardammo interdetti, ma ancora una volta l’orgoglio vinse e ci buttammo. Questa volta feci molti metri in più di dieci, ma alla fine presi una velocità che mi parve enorme e franai fuori pista in un nugolo di neve. Non mi ero rotto nulla, ma sentivo un gran freddo alle gambe. Il mio nuovissimo pantalone si era completamente scucito e ridotto a quattro strisce di stoffa nera tenute insieme in vita e alle caviglie. Praticamente ero in mutande. Una giovane e bella signora che scendeva con estrema eleganza si fermò con un guizzo affianco a me per offrirmi aiuto. Io ero imbarazzatissimo e con il mio inutile orgoglio in mille pezzi, ma ricordai il maglione di mia madre e tirandolo giù riuscii a farlo arrivare fino alle caviglie. Declinai l’offerta con un sorriso, mi tolsi gli sci e, al diavolo l’orgoglio, me ne scesi a piedi con le mie brache svolazzanti sotto un lunghissimo maglione grigio.

Decisi che lo sci era uno dei miei limiti da non superare, e da allora non ci ho più provato.

Mazzantini

Ivano Mazzantini, detto Ivo, era un giovane fisico fiorentino. Tchou me lo affidò dicendo: «Gli faccia fare la solita trafila manuale, tanto perché si ambienti.».

Per la nostra stampante bisognava fare un decodificatore montato su un laminato isolante a forma rettangolare di 120 x 42 posti su cui andavano saldati 504 diodi al Germanio con i relativi fili di uscita. In totale si trattava di fare più di un migliaio di saldature. Provai a spiegargli come si doveva saldare a stagno in modo che le saldature fossero di buona qualità, ma lui mi disse un po’ seccato che sapeva come farle. Gli dissi di chiamarmi in caso di dubbi o quando avesse finito. Mi chiamò quando ebbe finito. Osservai le saldature. Erano tutte fredde o quasi e glielo dissi. «Non è vero», sostenne lui. Allora presi uno a uno i fili di uscita e tirai; venivano via come se fossero stati attaccati con un cattivo adesivo. «Ripassale tutte» gli dissi e me ne andai, ma lui corse a protestare da Tchou, che da buon capo lo rimise alla mia attenzione. Ivo venne da me incazzato. «Io mi sono laureato in Fisica con lode e voglio fare ricerca, invece tu mi fai fare l’operaio!».

«Quando lavori con le mani tu sei un operaio e devi fare un buon lavoro proprio come quando fai il fisico e lavori con la testa perché fai ricerca. Come pensi di valutare il lavoro di un tuo operaio se non sai fare bene tu stesso quello che gli dai da fare? Perciò ora impara a saldare, vedrai che ti tornerà utile.».

In effetti le saldature fredde sarebbero poi state per noi un grosso tormento, almeno finché la tecnica di saldatura non trovò il modo di eliminarle. Noi invece si valutava la bontà delle saldature sbattendo con forza il manico di plastica di un cacciavite sulle piastre a circuito stampato; se la macchina si guastava c’era una saldatura fredda da cercare e ripassare. Il metodo era certamente grezzo e artigianale, ma di sicuro molto efficace

Più tardi Mazzantini mi ringraziò per la storia delle saldature. Ivo fece poi una bella carriera dentro e fuori l’Olivetti.

Qualcuno mi ha detto che tempo fa se n’è andato, anche lui. Ciao amico Ivo, ti ricordo con grande rispetto. **  segue

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