di Gianni Di Quattro

Sono entrato in Olivetti per caso, perché mi hanno preso, ho fatto un paio di colloqui di selezione dopo la laurea e dopo che avevo inviato spontaneamente un mio scarno curriculum. Avevo deciso di cercare un lavoro dopo avere verificato che la vita non mi consentiva di fare quello che mi sarebbe piaciuto. I due colloqui sono stati fantastici, il primo con Furio Colombo e il secondo con Ottiero Ottieri in una giornata milanese piovosa di settembre nella vecchia e splendida Via Clerici. Naturalmente la decisione finale fu presa da un personaggio che ancora oggi, dopo tanti anni, non riesco a dimenticare e che ho sempre stimato e cioè Ugo Galassi, il grande artefice della organizzazione commerciale della Olivetti. Una organizzazione commerciale che vale, nel giudizio che si può dare della azienda, tanto quanto la genialità progettuale del mitico Cappellaro e dei tecnici di Ivrea con la sua Divisumma 24. Ed anche altri prodotti.

Poi ho fatto il mio percorso, non credo di essere stato sempre all’altezza, ho incontrato capi che mi hanno stimato, altri con i quali è stato difficile almeno nei primi tempi creare una sintonia ed anche altri ancora che mi hanno giudicato molto pesantemente. Sempre in questi casi con una grande amarezza e con un grande dispiacere. Comunque, il mio percorso con l’aiuto dell’impegno e della fortuna è andato avanti, anche raggiungendo traguardi ai quali non avrei pensato di potere arrivare, sino a quando sono stato allontanato dal mio lavoro, erano già i tempi di Carlo De Benedetti ed erano, soprattutto, i tempi del predominio culturale del mondo eporediese su tutte le altre funzioni della impresa.

In conclusione, e senza entrare nei dettagli e nelle valutazioni specifiche di chi mi ha stroncato e sino a chi mi ha cacciato, il mio percorso olivettiano è stato forse come quello di tanti altri, della massa delle persone. Non ho avuto bisogno di amici, né di cercare di andare dove volevo, sono sempre andato dove mi hanno detto di andare.

Il mio orgoglio umano e intellettuale oggi, che tanto tempo è passato e l’azienda, purtroppo, è stata distrutta, è quello di avere sempre separato il giudizio sull’azienda, sui suoi valori, naturalmente quelli di Adriano che per fortuna per un po’ hanno resistito anche se mano a mano dopo la sua scomparsa si diluivano, e il mio percorso professionale. Nel senso che non mi sono mai fatto fuorviare nel giudicare uomini e cose dai miei piccoli successi e soprattutto dalle mie disavventure per così dire.

Perché dico tutto questo? Perché la Olivetti è stata una azienda speciale, la conoscevo già prima di lavorarci perché ero in contatto con Comunità, leggevo le sue riviste, riuscivo ad avere i suoi libri. Dopo è stato bello rendersi conto di quanto talento c’era, di quanta qualità umana, di quanta attenzione c’era della impresa non solo al modo di fare bene impresa, ma anche di rendere compatibile questa stessa con il territorio, di quanto si cercava di contribuire alla comunità. Ed ancora del rispetto verso il personale, della ricerca della bellezza, del volere dare importanza alla cultura, insomma di cercare innovazione e futuro e di volere contribuire al progresso cercando di parallelizzare sempre la tecnologia alla umanità, il valore della macchina a quello superiore dell’uomo.

Per questo dico che se guardo alla mia vita professionale, due sono stati gli elementi dominanti e cioè il caso che mi ha portato alla Olivetti e l’orgoglio di esserci stato. Il resto è poco importante e banale.

 

 

 

 

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